FESTIVITA’ NATALIZIE 2023
– Newsletter di Maurizio al Corso –
I N T O R N O A L C E PP O – PARTE I
NOVELLE DI NATALE DEI MIGLIORI AUTORI ITALIANI E STRANIERI
RACCOLTE DA MARIO BORSA
E PRESENTATE DA GIOVANNI BERTACCHI
EMILIO DE MARCHI, STORIA DI UNA GALLINA
SELMA LAGERLOF, LA PACE DI DIO
WASHINGTON IRVING, OLD CHRISTMAS.
PREAMBOLO di GIOVANNI BERTACCHI.
In un autunno lontanissimo, fanciullo di dodici anni, fui condotto la prima volta a Milano da una mia buona sorella, per visitarvi la grande esposizione dalla quale si può dire che dati l’avvento di questa città fra le più industri d’Europa.
Delle tante meraviglie che percossero la mia sensibilissima curiosità, una me ne rivive, appartata, nella me- moria: un immenso telone circolare, sormontato da una tenda a mo’ di tetto acuminato, eretto nel quartiere alberato del Tivoli, presso l’Arena, e chiamato col nome un po’ pretensioso di panorama. All’interno quella tela era dipinta, tutto in giro, e riproduceva, più o men tratte dal vero o dal verosimile storico, scene d’insieme ed episodi della battaglia di San Martino.
Io non serbo ricordo preciso delle singole parti di quella inattesa veduta; mi resta però il senso generale d’un effetto di distanze assai bene ottenuto e, via via, dei piani più vicini e della zona di terreno interposta fra
la tela e la pedana degli spettatori, che, continuando il grande quadro, riproduceva al concreto un tratto del campo combattuto, sparso di figure massicce, quasi al naturale: soldati in varie positure, cannoni, cavalli, carriaggi: il tutto sorpreso e reso nello scompiglio furioso e dolorante come d’un momento decisivo. Ricordo anche il gioco della luce che, investendo il telone dal di fuori, avvivava la scena e dava ai cieli dipinti singolari parvenze di verità, pure effondendoli di riflessi arcana- mente irreali.
Mi si crederà se confesso d’aver provato a quello spettacolo un indistinto sbigottimento nel cuore, che nasceva non solo dal trovarmi così a tu per tu con l’affar serio di una battaglia fierissima, bensì anche da quel vedermi preso in mezzo al gran quadro, che mi circondava d’ogni parte, senza interruzione e senza remissione. Al teatro o alle proiezioni – le poche volte che c’ero stato – avevo risentita altra impressione, perchè la scena si offriva solo di fronte, lasciando liberi i lati, dov’erano i palchetti, le corsie, un territorio, insomma, riservato alla indipendenza degli occhi e alle distrazioni della mente, se mai la scena di fronte mi annoiasse o turbasse. Qui era l’isolamento assoluto che la presenza di altri spettatori, sottratti, come me, ad ogni svago, anziché diminuire, accresceva.
Da quella volta io non vidi più simili avvolgenti panorami. Nella fuga tumultuaria dei giorni la mia folle consorte Fantasia non curò più le tele dipinte dalla mano dell’uomo, paga di connaturarsi coi quadri della
terra e del cielo, di operare da sè i suoi vaghi incantesimi, svolgendoli dalle essenze meno corporee o anche dai nulla della vita per gli occhi dell’anima mia. Così spesso bastò un aroma o un sapore straniero perchè mi cingesse d’ogni intorno, con le sue efflorescenze lussureggianti e con le arboree architetture, un prodigioso giardino orientale; spesso una dolce musica, fra me e il brulichìo quotidiano, tesseva l’armonia su cui creature melodiche, amando, piangendo, pregando, rinnovavano al mio senso ed al mio cuore il dramma e il poema delle passioni immortali; talora anche solo una data, spiccandosi improvvisa dal calendario, mi cinse d’un paese di memorie, mi spinse fra calche di eroi, mi rinnovò intorno l’orizzonte delle più varie fedi, tante volte cadute e risorte nelle vicende anele dei popoli…
O Natale, oasi del mondo, che ti moltiplichi ogni anno per quante regioni e nazioni e città e borgate e villaggi enumera la Cristianità! Basta che ricompaia quel giorno, perchè tutti riudiamo il racconto del semplice evangelista: «. Ed ella partorì il suo figliuolo primogenito e lo fasciò e lo pose a giacere nella mangiatoia… Or nella medesima contrada vi erano de’ pastori, i quali dimoravano fuori nei campi, facendo le guardie della notte intorno alla lor greggia. Ed ecco un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore risplendé d’intorno a loro: ed essi temettero di gran timore. Ma l’angelo disse loro: – Oggi nella città di Davide vi è nato il Salvatore, che è Cristo, il Signore. ».
Tepida doveva essere, intorno al Neonato prodigioso,
la notte di Palestina, la notte stellata d’Oriente. Ma la nascita santa, riverberandosi, di qua dal mare, in religione vittoriosa via via per le terre d’occidente, salendo dai miti inverni tirreni verso le terre del settentrione, si sparse per le pianure percorse da fiumi brumosi, s’addentrò per le valli profonde, ascese i dossi dei monti cercando le ultime tribù dei casolari alpestri, visitò le metropoli grige nel cuore d’Europa, raggiunse le dune basse rigate da canali sonnolenti e i fiordi e le baie ove le barche dei pescatori son come villaggi natanti, ripullulò così in mito e rito invernale, in paesaggi pastorali, coronati nella sacra mezzanotte da ninnenanne di pive e da concenti di campane, intepiditi dal fumo di ogni anche umile tetto, col verde cupo dei pineti macchiettato di bioccoli candidi e, intorno, distese di neve segnate dalle orme di qualcuno che ritornava.
Come appunto la neve, scendendo a distesa per lo spazio cinereo, ci avvolge nel velo tremulo del suo turbinante sfarfallio e, di qua da esso, chi vi cammina si raccoglie a sè, vedendo sparire intorno ciò che era il mondo per lui, e chi siede al proprio fuoco si risente nel cuore l’anima de’ suoi padri, così il Natale circonda ognuno di noi della sua fedele illusione, istoriata di sante leggende come in una fanciullezza dei tempi. Torna fra noi il buon Pastore, che va e va un anno intero, fuor della vista degli uomini, per ricomparir loro da- vanti in quel caro unico giorno. E in quel giorno diventa realtà tutto quanto nel resto dell’anno sarebbe ingenua ubbia. Se la vita, dibattuta e lacerata fra appetiti insaziabili, generò le più implacate battaglie, in tal giorno il Pastore le intima la tregua: se essa si contaminò di colpe che aspettano la loro sanzione, egli invoca le clementi amnistie; se ci suscitò dentro il cuore le in- quietudini amare, egli promette pace: pace sulla terra agli uomini di buona volontà. Per tutti ha un suo dono il Pastore: doni per le mense delle famiglie riunite, doni per il fantastico istinto dei fanciulli e dei giovinetti, doni cercati per gli adulti fra i tesori dello spirito più sacri.
Ecco: io che scrivo questo preambolo, ispirato a tale religione, mi trovo come sulla soglia d’una grande stanza ospitale, ove, intorno al fuoco di ceppo, s’è raccolto un gruppo di Eletti a tessere una ghirlanda di favole pel giorno delle fantasie e dei cuori.
Inconsuete, strane, anche, talvolta, appaiono le storie che la voce dei novellatori espone, come viventi, sotto l’occhio del Pastore che ascolta, al riflesso della fiamma odorante di ginepro e di lauro; ma quelle sorprese del destino che in altri giorni parrebbero invenzioni di semplici ingegni, oggi s’investono di piena verità; quegli incontri inaspettati di anime, che, dallo spazio e dal tempo, convergono a un unico punto, senza saper come, diventano le mete prevedute da Uno che sa tracciare, infallibili, sulle lande, sulle nevi, sulle acque oceaniche gli itinerari voluti dalle occulte necessità dell’amore. Queste che sembrano favole non sono che i doni del Pa- store. Egli è che sugli zoccoli della bambina Solange, sottratta in una povera casa alle minacce della guerra civile, depone, per mano del padre proscritto, la bambola bella che disarmerà il cuor ferreo di Metzger, il sergente dei Bleus; egli che al buon Colleret, modesto impiegato di provincia, reca la fortuna inattesa attraverso l’incidente burlesco che l’avvicina all’Imperatore; egli che all’orfano senza nome, sperduto nella città grande, escluso dai begli alberi ch’ei vede, fitti di regali e di lumi, trasforma tutta quella ricchezza non sua in un albero fiorito di stelle, sotto cui ritroverà per sempre la povera mamma perduta.
Narra la pia leggenda che, dentro la capanna di Betlemme, due mansueti animali riscaldarono del loro ali- to le membra dell’Infante divino? Ecco la benedizione del Pastore estendersi, quasi per premio, alla famiglia innumerevole delle creature inferiori e salvare dall’ultimo sacrificio la gallinella allevata per il pranzo natalizio dai due coniugi che le si sono affezionati; ecco il vecchio Cristiano, gran cacciatore in cospetto d’ogni più aspro elemento, convitare per la foresta la varia selvaggina a banchetto, nel giorno della comune innocenza.
Solo a chi offende la tregua stipulata in tal giorno fra gli animali e gli uomini, toccherà il castigo per cui il fattore Ingar Ingmarson cade ucciso dall’orso assalito, che pur l’aveva senza offesa accolto nel suo covile la notte; solo davanti alla tempesta di ferro e di fuoco che lacera l’aria e imporpora le nevi d’Europa nei terribili inverni della guerra, i tre re venuti d’oriente riportano intatte le loro offerte e rimisurano le vie fin che li riassorbe l’orizzonte della loro Asia lontana. Ha paura del male, il Pastore, se non gli riesce di volgerlo a inattesi effetti di bontà, come nel cuore dell’usuraio Ramunno, laggiù nella Sicilia appassionata, che nella notte santa, aggredito, spogliato d’ogni avere, con sotto gli occhi il suo covo incendiato, si sente una strana pace nel cuore e va, liberato e rinnovato, dietro un mistico suono lontano… Vuole innocenza, il Pastore; nè v’è anima tanto inoltrata negli anni che non ritrovi la fanciullezza per lui, e, pur vivendo tra la più varia e mossa umanità, non riassuma, per quel giorno, in un solo rimpianto tutti i natali che non sono più: nè v’è spirito tanto avvezzo a penetrare frugando il dramma comico o protervo della vita, che non si trovi in quel giorno a palpitare commosso davanti a un romantico idillio. risolventesi in mutuo patto all’altare, o davanti a una nidiata di bimbi che sta per varcare l’oceano verso la mamma emigrata e, proprio nella santa vigilia, è raggiunta dalla sua mamma al di qua, riconoscendola all’eco d’una ben nota preghiera.
Par di vederli, questi interpreti di uomini, sorpresi della loro tenerezza, rileggere le pagine ingenue scritte quasi sotto il dettato d’un genietto burlone, come accadde al papà di Matilde nello stendere il brindisi di natale…
— Che diamine mi capita quest’oggi? Chi mi cambiò le parole nel calamaio? E perchè mai le parole oscillano sulle pagine così? —
Ed estraggono il fazzoletto e se lo passano sugli occhi e si riprovano a leggere lo scritto…
Al che guardando, il buon Pastore sorride.
EMILIO DE MARCHI
STORIA DI UNA GALLINA
Vivevano una volta due vecchi sposi. Egli non si chiamava Taddeo, ma Paolino, ed essa, la signora Brigi- da, buone anime entrambe. Il sor Paolino lavorava in canestri e la moglie in raggiustare le calze; dopo trent’anni, si volevano bene come il primo giorno di matrimonio, anzi, invecchiando, miglioravano nell’amore, come il vino nelle botti suggellate. Se il Cielo mi conce- desse tanto buon tempo che io potessi raccontare giorno per giorno la vita del sor Paolino, e della sora Brigida, crederei di giovare col mio libro ai miei simili, ben più che con un trattato di meccanica celeste: perchè, dopo tutto, l’amore e la benevolenza sono il pernio, sul quale la ruota del mondo gira senza stridere. Ma poiché questa consolazione non mi è concessa dalle circostanze, racconterò almeno in quest’occasione del santo Natale un episodio della loro vita, che farà piangere, io credo, tutte le anime sensibili. Beato chi piange, e una lagrima, dice un libro cinese, è più grande del mare.
Dopo l’esperienza fatta negli anni passati e sempre in loro danno, i nostri buoni vecchietti eran venuti entrambi del parere di allevare in casa una gallinetta, per vederla crescere sotto i loro sguardi all’avvicinarsi di queste ultime feste dell’anno, togliendo così il pericolo, tan- to comune oggidì, di dover mangiare una cosa per l’altra o fors’anche una porcheria. E poiché sono sull’argo- mento, si sa oggimai che, se tutte le lepri, che si mangia- no all’osteria potessero parlare, i topi non starebbero a sentirle; come, per altra parte, accade spesso a qualcuno, mentre siede col suo pezzo di manzo sul piatto, di vederselo scappar via al suono d’una frustata. La lepre è gatto, il bue è cavallo, e così via il vino è aceto, l’aceto è veleno; non c’è speranza che nel tempo, quando, cioè, le cose saranno diventate così naturalmente false, che per cambiare torneranno quelle di prima. Ma intanto i nostri vecchietti, giunti sulla sessantina, dovevano per obbligo di coscienza guardarsi dalle cose false e tener da conto lo stomaco: non meritano lode, se all’avvicinarsi delle feste comperavano una gallinetta viva per nutrirla con le loro mani?
La cara bestiola passeggiava per casa da circa tre mesi, chiocciando, piluccando, ruspando, come fanno tutte le sue pari. Brigida, mentre suo marito stava alla bottega, soleva discorrere con lei o le tagliuzzava foglie di verze, o le sbriciolava del pan di melica, invitandola a bere in una terrina bianca che pareva porcellana. Che di- rò del sor Paolino? prima d’entrare si fermava dietro l’uscio chiamando chi-chi-chi; se fosse stata nelle nuvole, la povera bestia correva giù. Il canestraio allora rovesciava le tasche in terra e ne usciva del grano, del pane, del biscotto, che la gallina bezzicava divinamente sotto gli occhi beati dei suoi padroni. Una vedova che abitava vicino al loro uscio e che, dopo la morte d’un suo pappagallo non poteva resistere a tali spettacoli, piangeva come una bambina.
— Che peccato! – disse un giorno il sor Paolino, – che peccato che la povera bestia non possa assaggiare una goccia del mio caffè! oggi ha mangiato asciutto e le farà peso.
La sora Brigida invece trovava che, stando sempre in cucina sul mattone, avrebbe patito del freddo; non che volesse dire con ciò che un paio di calzette sarebbero convenute a una gallina, ma fece in modo che Paolino stendesse almeno una vecchia stuoia presso l’acquaio. E bisogna dire che la gallina avesse veramente dei meriti, perchè con niente non si fa il buon brodo, nè la buona stima. Le penne, infatti, le aveva screziate sul petto e d’un bel colore rosso dorato sulla schiena; le zampe magre e svelte, l’occhio vivace e malizioso la sua parte, e ai ragionamenti dei padroni rispondeva con certi movimenti del collo, degni di qualunque ragazza da marito. Le volevano bene, dunque, non solo perchè fosse una gallina, ma perchè gli animi buoni si attaccano volentieri alle cose buone. Mentre i due vecchietti sedevano a tavola a mangiare quel po’ di carne comechessia, comperata dal beccaio (nè potevano allevarsi in casa un bue come un pulcino), la gallinetta saltava su, guardava ne’ piatti, ora con l’occhio destro, ora col sinistro, con tanta innocenza che i due vecchietti perdevano la memoria dell’appetito. Ma i giorni passano per tutti. Già si discorreva delle feste, come se fossero giunte: la gente pensava al modo di passarle bene e il Natale veniva innanzi con le sue scarpe di feltro. I nostri due buoni vecchietti già da cinque o sei giorni si vedevano sopra pensiero, come se avessero nel capo un cespuglio di spine; ma, essendo e l’uno e l’altra d’indole timida e rispettosa, per paura di farsi torto a vicenda, masticavano in silenzio il loro dolore. La gioia comune che si spande in questi giorni e che rischiara le case e gli animi della gente, non li rallegrava, anzi se qualcuno diceva: – Buone feste, sora Brigida, – essa rispondeva appena, crollando malinconicamente la testa. Anche il sor Paolino a bottega non era più lui; stava immobile, con le mani sul canestro, gli occhi fissi in terra e pensava: – Se non fosse che Brigida ha bisogno d’un vitto sano e nutriente, chi oserebbe strappare una penna a quella povera creatura? E la sora Brigida dal canto suo, correndo sulla calza: – Se quel pover’uomo non avesse lo stomaco disfatto, se non avesse speso per allevarla, chi avrebbe cuore?… ma dirà che sono tenerezze da donna malata, e riderà di me; come noi ci burliamo della nostra vicina.
Così passò qualche altro giorno, senza che nè l’uno nè l’altra osassero toccare quel brutto tasto.
Mancavano tre giorni appena al Natale e bisognava uscirne. Sedevano entrambi innanzi al camino, dopo un pranzo di magro fatto con certi pesci, che forse non eran pesci. Egli, il sor Paolino, andava costruendo colle mol- le una catasta di fuscellini, intorno a un ceppo, che bruciava vivo vivo, ed essa, la sora Brigida, in una cuffia di traliccio, colle mani sotto il grembiule, piangeva in silenzio nell’ombra.— Credi tu, amor mio, – cominciò il sor Paolino, – che fosse veramente una tinca che abbiamo mangiato?
— Credo di no, – ella rispose stentatamente.
— Se si potesse tenerli in casa nella catinella i pesci, come si tengono i polli nella stia, si potrebbe vedere, – soggiungeva il marito per tirare il discorso sull’argomento. Brigida si scosse sulla sua sedia e soffocò un sospiro dentro di sè per non dare segno a quel pover’uomo della sua sciocca debolezza. Vedeva troppo bene che Paolino contava di poter mangiare almeno il giorno di Natale qualche cosa di schiettamente sano.
— Essa non immagina punto il mio pensiero, – disse fra sè il buon uomo, a cui spiaceva e come uomo e come marito di mostrarsi in qualche parte da meno di sua moglie. Sedevano innanzi al fuoco, come dicevo, scaldandosi le ginocchia e discorrendo così, quando a un tratto videro venire innanzi la loro gallina, che si era levata ad ora insolita, e che veniva a specchiarsi nella fiamma. Le sue penne mandavano bagliori e fosforescenze d’oro di piropo e, o fosse che i poveri vecchi la vedessero attraverso le lagrime, o fosse altrimenti, parve loro una cosa piovuta dal Cielo, se non proprio il gallo che convertì san Pietro.
Il sor Paolino non poté resistere a quella vista, e con un pretesto uscì; e uscita anch’essa, poco dopo, la povera donna, andò a bussare all’uscio della vedova, in cerca d’un consiglio. Il canestraio trovò per via Angiolino del Trapano, suo vecchio amico, uomo prudente e quasi letterato, gerente d’un giornale politico, che propugnava una santa causa. Angiolino ascoltò la gran passione dell’amico e si concertarono insieme sul modo di regolarsi in questa difficile circostanza. La mattina dopo, e precisamente la Vigilia di Natale, Angiolino venne a trovarlo a casa e strinse la mano alla sora Brigida. Egli s’era messo quel dì l’abito scuro e teneva in mano il cappello a cilindro come soleva fare nelle cerimonie o nei processi contro la santa causa. Parlò della mala piega delle cose d’Europa, dei tempi che si fanno grossi, della poca fede, della poca umanità che c’è nel mondo, e stava per aprire la bocca sull’argomento (che già Paolino era sugli spilli), quando entrò dall’altra parte anche la vedova, con gli occhi rossi, come il giorno che aveva trovato il suo pappagallo strozzato fra due ferri della gabbia. Era anche questa un’intelligenza presa fra le due donne. Tutti e quattro sedettero, sconcertati ciascuno per riguardo agli altri, mentre la gallina, più fortunata di tutti, passeggiava tranquilla, beccando le screpolature, quasi che al mondo non esistessero nè i grandi nè i piccoli affanni.
Vi fu un istante di silenzio.
Poi Angiolino del Trapano, carezzando colla manica il pelo del suo cappello, con l’occhio fisso alla gallina: – Fortunate le galline, – disse, che sfuggono a queste preoccupazioni! Esse posseggono ancora quella semplicità che gli uomini, fatti tiranni di se stessi, mettono in non cale, correndo dietro, come sciacalli, al proprio interesse- se, paghi soltanto quando sono pagati. Beati i tempi dei patriarchi, quando gli uomini si contentavano d’un piatto di lenticchie, ne avevano bisogno, come si vede in questi giorni, d’insanguinarsi le mani nella strage di tan- te creature, che sono pure creature di Dio! Quanto più bello e santo sarebbe, specialmente in queste occasioni, mostrar la bontà dell’animo nostro, concedendo riposo e tregua anche agli animali vivi e morti, che sono stati creati non per l’ingordigia umana, ma per far più lieta la natura col loro canto armonioso, con lo splendore delle loro piume, col tenero belato, col guizzar rapido e snello nelle acque dei fiumi. L’usignolo col suo canto notturno…– seguitava Angiolino del Trapano, ma uno scoppio di pianto interruppe il bel discorso. Paolino strinse nelle sue la mano di Brigida, e sorridendo sotto il velo delle lagrime, esclamò:
– Noi non saremo tanto cattivi; anch’essa mangerà il nostro piattello. Quelle care persone si accordarono di pranzare insieme il giorno di Natale, per far più lieta la festa dell’umanità. La sora Brigida preparò un pranzetto d’uova, di berlingozzi, d’insalata, e un pasticcio di riso e, poiché i tempi sono diventati così tristi, che uno non sa ormai quel che compera e quel che mangia a tavola, aggiunse per riguardo agli ospiti, anche una gallina delle solite, comperata sul mercato, la mattina al buio, senza discute- re, sicura in cuor suo che questa almeno non sarebbe stata una gallina.
SELMA LAGERLOF
LA PACE DI DIO.
Era la Vigilia di Natale in una vecchia fattoria, una vigilia con un cielo nero nero quale di solito precede una grande nevicata e con un vento del nord freddo e pungente. Nel tardo pomeriggio gli abitanti della fattoria si affrettavano a finire i loro lavori per andare a prendere il bagno nella vasta stanza riservata a questo uso. Per riscaldare l’acqua era stato fatto un tal fuoco che le fiamme uscivano dal comignolo insieme con una quantità di scintille e di fuliggine che era portata lontano e andava a cadere sopra i tetti coperti di neve dei cascinali adiacenti alla fattoria.
Il sollevarsi di queste fiamme fuori del comignolo della stanza da bagno e il loro dardeggiare nell’aria come una colonna di fuoco sovrastante la fattoria erano per tutti quanti un segnale dell’imminenza del Natale. La giovane domestica, che dormiva nel vestibolo e puliva in ginocchio i pavimenti, cominciò a cantarellare sottovoce, sebbene il freddo fosse tale che l’acqua si agghiacciava nel secchiello che aveva accanto. Gli uomini che tagliavano la legna nel baraccone menavano colpi di scure con maggior lena e allegramente come se quel loro lavoro fosse un divertimento.
Fuori della dispensa uscì una vecchia sostenendo fra le braccia un pesante carico di focacce rotonde. Si diresse lentamente oltre il cortile nella grande stanza rossa e v’entrò adagio deponendo tutto il pane sopra una panca. Poi gettò una tovaglia sulla tavola e collocò una focaccia grossa e una piccola al posto d’ognuno. La vecchia aveva un aspetto singolare: era molto brutta, con dei ca- pelli rossi, delle lunghe ciglia e una linea dura che le marcava la bocca e il mento. Ma ora era la vigilia di Na- tale ed essa pareva invasa da un tale spirito di pace e di gioia da far quasi scomparire la sua bruttezza.
Una sola persona nella fattoria non era allegra ed era la ragazza che continuava a legare con ramoscelli di betulla le fascine che dovevano servire per il fuoco della stanza da bagno. Essa sedeva davanti al camino e aveva lì vicino un mucchio di questi ramoscelli, ma i virgulti non erano forti abbastanza per tenere insieme le fascine. Attraverso i piccoli vetri quadrati della lunga e bassa finestra veniva il riverbero del grande fuoco nella stanza da bagno e pareva come che indorasse tutti quei ramoscelli. Ma più il fuoco diventava alto e più la ragazza si sentiva infelice. Essa temeva che le sue fascine, così mal legate, si sarebbero sciolte quando fossero venuti a prenderle e che della sua inettitudine avrebbero riso nella fattoria per un anno intiero, fino al prossimo Natale.
Mentre se ne stava là così angustiata, ecco che entrò nella camera, proprio colui di cui aveva maggiormente paura. Era Ingmar Ingmarson il padrone stesso della fattoria. Evidentemente era stato nella stanza da bagno per assicurarsi che la stufa era ben calda ed ora voleva vede- re se le fascine erano in ordine. Ingmar Ingmarson era vecchio, ed amava tutto ciò ch’era vecchio; però voleva che in casa sua tutti osservassero scrupolosamente il costume – il quale andava in disuso, ormai, nelle altre fattorie – di prendere, cioè, il bagno e di lasciarsi battere con ramoscelli di betulla.
Ingmar Ingmarson portava un vecchio pastrano di pelle di pecora, delle brache di pelle e degli stivali cuciti a mano. Era sporco; non si era ancora sbarbato; ma ave- va un fare quieto ed entrò così silenziosamente che si sarebbe potuto prenderlo per un mendicante. Lui e sua moglie si somigliavano ed erano parimenti brutti perchè le loro famiglie erano imparentate e la ragazza aveva imparato, fino dalla prima età, ad avere per quella gente un gran rispetto. Era, infatti, una gran cosa il semplice fatto di essere un membro dell’antica famiglia degli Ingmar, che era sempre stata la prima nel distretto, e l’idea- le poi di tutti gli uomini sarebbe stato di essere Ingmar Ingmarson, cioè la persona più ricca, più saggia, più potente di tutta la parrocchia.
Ingmar Ingmarson si avvicinò alla ragazza, si chinò, prese una delle fascine approntate e la gettò in aria. Subito essa si sciolse e i rami andarono in tutte le direzioni; alcuni caddero sul tavolo, altri sul letto.
— Ih! ragazza mia – disse il vecchio ridendo – credi che la gente usi di queste fascine quando deve fare il bagno nella fattoria di Ingmar? O hai anche tu paura per la tua pelle?
Visto che il padrone prendeva le cose per questo ver- so la ragazza si fece animo e disse che essa sarebbe stata buona di legare bene le fascine se le avessero dati dei virgulti un po’ più forti.
— Ebbene, te li andrò a prender io, ragazza – disse il vecchio Ingmar benevolmente, tutto compreso, com’era, di spirito natalizio. Uscì dalla camera e ristette un momento sulla soglia guardandosi intorno se avesse visto alcuno da mandare nel bosco piantato a betulle a coglie- re de’ virgulti. Ma i servitori stavano tagliando i ceppi di Natale, suo figlio portava giù della paglia dal pagliaio, i suoi due generi spingevano de’ carri nella rimessa e non c’era proprio alcuno che avesse tempo di abbandonare il cortile.
Allora il vecchio si decise ad andar lui. Attraversò il cortile in direzione obliqua, come se volesse andare nel- la stalla delle vacche; poi girò intorno lo sguardo per vedere se qualcuno lo avesse notato e sgusciò via dietro il muro del granaio dove c’era un sentiero che conduceva al bosco. Il vecchio non volle dire ad alcuno dove andasse per timore che suo figlio o i suoi generi lo facessero rimanere a casa; e i vecchi, si sa, amano fare a modo loro. Egli seguì il sentiero in mezzo ai campi, attraversò il piccolo bosco di abeti, e giunse sul luogo riservato alle piantagioni. Qui lasciò il sentiero e si inoltrò sulla neve per cercare qualche virgulto di betulla di un anno o quasi. Proprio in quella il vento avendo finito di accumulare nubi sopra nubi lasciò che la neve cadesse e la portò anzi lui stesso fischiando rabbiosamente, attraverso gli alberi.
Ingmar Ingmarson si era appena chinato ed aveva col- to un piccolo virgulto di betulla quando il vento lo sorprese col suo carico di neve. Egli si rialzò e il vento lo investì coprendogli la faccia di fiocchi bianchi. L’uomo non ci vide più e cominciò a barcollare tanta era la violenza della raffica. Il guaio fu che Ingmar Ingmarson era diventato vecchio. Quando era giovane e in gambe una bufera di neve non gli avrebbe fatto effetto. Ma ora tutto girava intorno a lui e pareva come se ballasse una danza di Natale. E quando egli cercò di ritornare a casa sbagliò completamente strada. Invece di dirigersi verso i campi aperti andò diritto alla volta dell’abetaia.
L’oscurità della sera calava rapidamente e fra le pian- te giovani, ai margini della grande foresta, la raffica fi- schiava e infuriava più che mai. Il vecchio vide benissimo che camminava fra abeti ma non si accorse di aver sbagliato strada perchè anche ai margini della piantagione di betulle, presso la fattoria, crescevano dei giovani abeti. A poco a poco però si inoltrò nella foresta dove tutto era quiete e silenzio. Lì non era possibile sentire la bufera perchè gli alberi erano alti con grossi tronchi. Al- lora capì che aveva preso la direzione opposta a quella della fattoria e volle tornare indietro.
Se non che era rimasto così stordito dalla bufera che, trovandosi nel mezzo della foresta senza il più piccolo sentiero, non fu capace di raccapezzarsi e di trovare la strada buona. Sulle prime andò da una parte, poi dall’altra. Finalmente pensò che il meglio sarebbe stato di ricercare le proprie orme, ma l’oscurità, che nel frattempo si era fatta più fitta, non gli permise di seguirle. E le piante erano diventate sempre più alte e più alte! Pareva come se, per una qualche stregoneria, egli dovesse essere condannato a girare e rigirare nella foresta tutta la sera e a non arrivare in tempo a casa per il bagno di Na- tale.
Si tirò il berrettone da una parte, rifece il nodo di un legaccio, ma il suo cervello non poté liberarsi da quel senso di confusione che lo aveva preso. Tutto intorno oramai le tenebre erano complete ed egli cominciò a te- mere che avrebbe dovuto passare l’intiera notte nella fo- resta.
Si appoggiò al tronco di un abete e stette lì fermo per raccogliere i suoi pensieri. Era così pratico della foresta, dove era stato tante e tante volte, che avrebbe dovuto riconoscere ogni pianta. C’era stato fin da ragazzo quando vi aveva portato le pecore e vi aveva teso trappole per gli uccelli. Aveva visto gli abeti tagliati e stesi al suolo e li aveva visti ricrescere e ridiventare alti un’altra volta.
Finalmente gli parve di orientarsi e di riconoscere il punto in cui si trovava. Se avesse preso da una certa par- te ne sarebbe uscito in breve. Si sforzò, ma tutti i suoi sforzi non ebbero altro risultato che quello di riportarlo sempre più nel cuore della foresta.
A un certo punto sentì sotto i suoi piedi il terreno duro e liscio e pensò di aver raggiunto un sentiero. Volle seguirlo pensando che i sentieri hanno sempre una meta. Ma il sentiero lo condusse in uno spiazzo della foresta dove scompariva sotto la neve, la quale cadeva lì, all’aperto, abbondantemente. Allora il vecchio si sentì venir meno il coraggio e parve disperare di salvarsi. Era dunque destino che dovesse morire in quella solitudine? Cominciò a provare una stanchezza che lo appesantiva e non gli permetteva più di trascinarsi nella neve. Più di una volta sedette sopra un sasso per riposarsi. Ma non era ancora seduto che il sonno lo prendeva ed egli sape- va che sarebbe stato agghiacciato dal freddo se vi si fosse abbandonato. Cercò di tenersi in moto come il solo mezzo per conservarsi in vita: ma, nonostante tutti i suoi sforzi, non poteva resistere al desiderio di mettersi a sedere. Gli pareva, quasi, che avrebbe dato volentieri la vita per un po’ di riposo. Il sollievo che provava nel sedersi anche un momento era tale che l’idea della morte non lo turbava più. Pensava anzi con piacere al suo elogio funebre che avrebbero letto nella chiesa. Egli ricordava l’eloquenza con la quale il decano aveva parlato di suo padre e certo non meno eloquentemente avrebbero parlato di lui. Avrebbero detto che egli aveva posseduto le più vecchie case nel distretto e parlato dell’onore e della responsabilità di appartenere a una famiglia come la sua. Di ciò egli era sempre stato consapevole. Un Ingmarson deve tener alta la bandiera della sua casa fino alla fine.
Ma poi ebbe una fitta al cuore pensando improvvisa- mente che non sarebbe stato glorioso per lui farsi trova- re morto assiderato nella solitudine della foresta. Non gli arrideva l’idea che di ciò si facesse menzione nell’elogio funebre. Allora si rizzò ancora in piedi e ricominciò a camminare. Era rimasto seduto così a lungo che, alzandosi e muovendosi, la neve scossa cadde giù abbondantemente dal suo pastrano di pelle di pecora.
Ma non andò molto che dovette rimettersi a sedere e allora la sua fantasia ricominciò a lavorare. L’idea della morte gli faceva adesso meno paura. Si figurava tutti i particolari del funerale e tutto il rispetto di cui il suo cadavere sarebbe stato fatto segno. Gli parve di vedere la tavola grande preparata per gli ospiti nella stanza principale del piano superiore: il Decano e sua moglie ai posti d’onore, il giudice in poltrona coi merletti bianchi che gli uscivano sul davanti, la moglie del sindaco nella sua veste di seta nera con la catena d’oro che le girava più volte intorno al collo. Vide tutta la stanza messa in bianco: panneggi bianchi alle finestre, drappi bianchi sopra i mobili. Virgulti di betulla sarebbero stati disseminati lungo tutto il tratto del vestibolo fino alla chiesa.
Per due settimane prima del funerale avrebbero cotto roba nel forno, ammazzato e fatto a pezzi, preparato da bere e lavato e pulito dappertutto. E la quantità di legna che avrebbero abbruciato in quattordici giorni! Il suo corpo chiuso nella bara sarebbe rimasto là nell’ultima stanza dove il camino di solito non usato avrebbe probabilmente fatto fumo. Si sarebbe cantato un inno mentre il coperchio inargentato sarebbe stato avvitato. Tutta la fattoria sarebbe stata piena di invitati.
Tutta la comunità del villaggio avrebbe avuto un gran da fare a fornire carrozze, tutti i cappelli della festa sarebbero stati spazzolati, tutto il cognac fatto nell’autunno sarebbe stato bevuto il giorno del funerale e tutte le strade sarebbero state ingombre di gente come per la fiera.
Ma il vecchio ebbe un nuovo sussulto. Gli pareva ora di udire i discorsi che si sarebbero fatti a tavola: «Come mai si è lasciato prendere dal freddo e agghiacciare a morte in quel modo?» chiedeva il giudice. «Che cosa era andato a fare nella foresta?»
Il capitano della gendarmeria rispondeva che, essendo la Vigilia di Natale, doveva aver bevuto troppa birra e troppo cognac.
Tutto questo ridiede forza al vecchio. Gli Ingmarson erano gente sobria! Non voleva che si dicesse di lui che proprio all’ultima ora si era dato a bere. Volle lottare an- cora. Ma era così stanco, così stanco che stava a mala pena in piedi. Si avvide che era giunto nella parte rialzata della foresta poiché il terreno era disuguale e ne sporgevano qua e là delle rocce quali non si trovavano nella parte piana. Il suo piede si impigliò, anzi, fra due grossi sassi e non gli riusciva di levarmelo. Dovette star lì fermo per un po’. E si lamentava: oramai era finita per lui!
Riuscì finalmente a districarsi, ma non ebbe fatto due passi, che inciampò e cadde sopra un grosso cespuglio. Non si fece male a cagione della neve e della ramaglia soffice, ma non ebbe più animo di risollevarsi. Non desiderava che una cosa: poter dormire! Aprì un po’ con le mani il grosso cespuglio e vi si cacciò sotto come se fosse stato una pelle. Ma così facendo si accorse che nel cespuglio giaceva qualche cosa di caldo e di tenero
«probabilmente un orso addormentato», egli pensò.
Sentì la bestia muoversi e soffiare forte qua e là ed egli restò lì fermo, sicuro di essere divorato. Anche se l’avesse voluto non avrebbe avuto la forza di fare un passo per fuggire!
Ma non pare che l’orso volesse fare del male ad uno che si era rifugiato sotto il suo tetto in una notte d’inferno come quella. Anzi si tirò indietro nella sua tana per far posto all’ospite e subito dopo si riaddormentò con un respiro uguale e pesante.
Frattanto non c’era stata molta allegria di Natale nella vecchia fattoria degli Ingmarson. Per tutta la serata ave- vano cercato Ingmar Ingmarson; prima nella casa e in tutti i cascinali annessi, dal tetto alle cantine, quindi nel- le case dei vicini per sapere se lo avessero visto.
Non avendolo trovato in nessuna parte il figlio ed i generi, cominciarono ad aggirarsi per la campagna. Le torce, con le quali si soleva andare in chiesa la mattina di Natale presto, furono accese e portate per tutti i sentieri e per tutte le strade sotto l’infuriare della bufera. Ma il vento aveva spazzato via ogni orma umana e col suo urlìo soffocava le voci che chiamavano il vecchio. Rimasero fuori così fin dopo la mezzanotte, ma poi abbandonarono le ricerche, decisi a riprenderle appena si fosse fatta la luce del giorno. Al primo albore, infatti gli abitanti della fattoria erano ancora in piedi pronti a recarsi nei boschi. Ma prima che partissero la vecchia padrona della casa li chiamò tutti quanti nella stanza da pranzo. Li invitò a sedere sulle lunghe panche e sedette lei pure alla tavola con la Bibbia davanti e cominciò a leggere. E cercando qualche passo che si adattasse al caso presente, trovò la storia dell’uomo che, andando da Gerusalemme a Gerico, si imbatté nei ladri. Essa lesse adagio, con una voce che pareva una cantilena, come l’uomo in tali difficoltà sia stato aiutato dalla buona Samaritana. I suoi figli e generi, figlie e nuore le sedevano accanto sulle panche. Tutti le assomigliavano e si assomigliava- no: strutture larghe e pesanti, facce brutte e sagaci. Tutti appartenevano al vecchio ceppo degli Ingmar: tutti ave- vano capelli rossi, pelle lentigginosa, occhi celesti chiari con palpebre bianche. In altri punti potevano differenziarsi, ma tutti quanti avevano la stessa espressione dura nella bocca, gli stessi occhi sonnolenti, gli stessi movimenti impacciati come se trovassero ogni cosa difficile. Era però evidente che tutti quanti appartenevano alla migliore classe sociale del distretto e che erano consapevoli della loro superiorità.
Tutti i ragazzi e le ragazze della casa tiravano de’ profondi sospiri mentre la lettura continuava. Si domanda- vano se qualche buona Samaritana avesse trovato anche il loro padre e ne avesse preso cura. Per tutti gli uomini era come se avessero perduto una parte della loro anima quando capitava qualche cosa di male a qualcuno della famiglia.
La vecchia continuando a leggere arrivò alla doman- da: «E chi ora credi tu che gli fosse vicino quando cadde in mezzo ai ladri?» Ma prima che essa avesse tempo di leggere la risposta la porta si spalancò ed il vecchio Ingmar entrò nella stanza.
— Mamma, il papà è qui! il papà è qui! – esclamò una delle ragazze e la risposta: «Gli fu vicino Colui il quale gli mostrò pietà» non fu letta.
Più tardi, quello stesso giorno, la vecchia sedette allo stesso posto e lesse ancora la Bibbia. Era sola; le donne erano andate in chiesa e gli uomini alla caccia dell’orso nella grande foresta. Dopo aver mangiato e bevuto Ingmar Ingmarson aveva preso i figli con sè ed era andato a dar la caccia all’orso perchè è dovere dell’uomo di uccidere l’orso dove e quando lo incontra. Risparmiare la vita di un orso è cosa assurda perchè presto o tardi quando l’animale è preso dalla voglia della carne non risparmia nè uomini nè animali.
Ma dopo che erano partiti per la caccia, la vecchia madre si era sentita molto inquieta e aveva cominciato a leggere. Aveva cominciato a leggere quello ch’era stato l’argomento del sermone nella chiesa, ma non era andata più in là delle parole: «Pace sulla terra agli uomini di buona volontà». Rimaneva là seduta e fissava quelle parole con gli occhi che le si offuscavano e di tanto in tan- to respirava affannosamente. Non lesse, dunque, più oltre, ma ripetè più di una volta strascicando le parole: «Pace sulla terra agli uomini di buona volontà».
Il figlio maggiore entrò d’un tratto nella stanza men- tre essa ripeteva appunto queste parole. – Mamma! – egli le disse a voce bassa.
Essa lo udì ma non sollevò lo sguardo dalla Bibbia: si limitò a chiedere: – Non sei nella foresta?
— Sì – egli rispose con voce anche più bassa – ero là.— Avvicinati alla tavola – essa disse – che io ti possa vedere! —Egli si avvicinò, e allora la madre vide che tremava. Dovette anzi afferrarsi all’orlo della tavola per tener quiete le mani.
— Avete ucciso l’orso? – essa chiese.
Egli non potè aprir bocca, ma fece segno di no.
La vecchia allora si alzò e con una tenerezza che non aveva più mostrato a quel suo figliuolo da quando era un bambino, gli passò la mano sul braccio, gli accarezzò la guancia e lo fece sedere sulla panca. Quindi gli si mise accanto, gli prese una mano fra le sue e gli chiese:
— Dimmi, che cosa è successo, ragazzo mio?
—Il figliuolo commosso per quelle tenerezze e carezze che non aveva più provato da quando era bambino cominciò a singhiozzare.
— Capisco che qualche cosa deve essere successo al papà – essa disse.
— Sì – singhiozzò il giovane – qualche cosa di grave, di terribile… —
Il ragazzo ora piangeva forte e non poteva più con- trollarsi. Sollevò la mano grossa e callosa e con un dito segnò le parole che essa aveva letto poco avanti: «Pace sulla terra…».
— Qualche cosa che ha a che vedere con ciò? – essa chiese.
— Sì!
— Qualche cosa che ha a che vedere con la Pace di Natale?
— Sì!
— Voi avete fatto stamani qualche cosa di male?
— Sì!
— E Dio ci ha puniti!
— Dio ci ha puniti! —
Finalmente essa seppe ciò che era accaduto. Avevano trovato nella foresta il posto e vi si erano avvicinati tan-to che potevano vedere il cespuglio dove la bestia era rintanata. Allora si erano messi lì pronti coi loro fucili. Ma proprio in quella l’orso si era slanciato fuori della sua tana avventurandosi contro di essi con tanta rapidità che non avevano avuto nemmeno il tempo di prenderlo di mira. La bestia si era guardata intorno un attimo poi era saltata addosso a Ingmar Ingmarson colpendolo al capo e facendolo cadere come fulminato. Dopo di che l’orso, senza toccare un capello agli altri, era sparito nella foresta.
Nel pomeriggio la vedova di Ingmar Ingmarson ed il figlio si portarono alla casa del Decano e gli annunciarono la morte. Solo il figlio parlò. La vecchia sedette e stette ad ascoltare con una faccia così immobile che pareva di pietra. Il Decano si mise nella sua poltrona presso la scrivania. Aveva tirato fuori i registri della chiesa ed ora vi segnava la morte di Ingmar. Scriveva molto adagio perchè voleva aver tempo di pensare che cosa dovesse dire alla madre e al figlio, il caso essendo piuttosto strano. Il giovane aveva narrato tutti i particolari dell’accaduto parcamente, ma il Decano avrebbe voluto sapere come essi avevano preso la cosa. La gente della fattoria di Ingmar era così strana!
Quando il Decano ebbe chiuso il libro il figlio disse:
— Noi desideriamo anche farle sapere che non vogliamo che si legga alcun elogio funebre del papà. —
Il Decano si tirò gli occhiali sulla fronte e rivolse uno sguardo sorpreso e indagatore verso la vecchia. Ma essa era sempre là immobile come una pietra. Solamente le sue mani stringevano e attorcigliavano il fazzoletto.
— Desideriamo ancora che sia sepolto in un giorno della settimana, non di domenica – continuò il figlio.
— Davvero?! – disse il Decano. Gli pareva di sogna- re: gli pareva come se la camera girasse. Seppellire il vecchio Ingmar Ingmarson senza che nessuno lo sapesse! Senza che la congregazione disposta lungo le pareti della chiesa lo vedesse portare in processione alla tomba!
— Non ci sarà cena. L’abbiamo fatto sapere ai vicini, perchè non mandino provvigioni.
— Davvero?! – disse ancora il Decano sbalordito. Non ne capiva proprio nulla. Eppure, sapeva benissimo che cosa volesse dire per una simile famiglia rinunciare a tutte queste cerimonie. Pensava anche che nulla sarebbe toccato a molte vedove e orfani.
— Non ci sarà processione: ci saremo solo io e i miei fratelli. —
Il Decano rivolse ancora alla vecchia donna uno sguardo che voleva essere come un appello. Possibile che anch’essa fosse di questo avviso? Il pensiero di suo figlio era proprio anche il suo? Essa sedeva là impassibile e si lasciava privare di tutte quelle cerimonie che per lei dovevano essere più preziose dell’argento e dell’oro.
— Non vogliamo che suonino le campane o che piatti d’argento siano posti sul cofano. Tale è il pensiero di mia madre e mio; ma noi siamo venuti qui a dirlo al Decano per sapere da lui, se egli crede che la cosa sia in- giusta per il papà. —
La madre gli fece eco: – Desideriamo sapere se il Decano crede che, forse, la cosa sia ingiusta per il papà! — Il Decano non rispose ed essa allora continuò con voce ferma e alta: – Io desidero dire al Decano che, se mio marito si fosse ribellato al Re o al Governatore o se io stessa fossi stata costretta a tirarlo giù dalla forca, gli avrei fatto egualmente un funerale come si deve e come ebbero i suoi padri prima di lui, perchè gli Ingmar non hanno paura di alcuno e non hanno bisogno di nascondersi. Ma Dio ha ordinato che ci fosse Pace fra le bestie e gli uomini durante il Natale e la povera bestia aveva osservato il comandamento di Dio mentre noi lo abbiamo rotto e per questo Dio ci ha punito. Non siamo dunque degni di cerimonie e di pompe. —
Il Decano si alzò e le si avvicinò: – Ciò che voi dite è vero – osservò – e tutto sarà fatto secondo il vostro desiderio. – Poi involontariamente aggiunse come se parlasse tra sè e sè: – Brava gente la gente di Ingmar! —
La vecchia si ricompose un po’ all’udire queste paro- le, e al Decano essa parve per un momento come il simbolo di tutta la stirpe. Egli capì allora ciò che per secoli aveva fatto di questa gente dura e taciturna la prima di tutto il distretto.
— Gl’Ingmar devono dare il buon esempio – disse poi. – È bene che noi ci mostriamo umili al cospetto di Dio! —
WASHINGTON IRVING
OLD CHRISTMAS.
Non c’è per me in Inghilterra nulla di più pittoresco e di più poetico che il perdurare delle costumanze festive e dei giuochi campestri di tempi andati. Essi mi ricorda- no le scene e i quadretti che mi compiacevo di immagi- nare nel mattino della mia vita, quando conoscevo il mondo solamente attraverso i libri e credevo fosse proprio tale quale i poeti lo avevano rappresentato. Nello stesso tempo, queste costumanze e questi giuochi portano seco il profumo di un passato lontano ed onesto nel quale – forse per un analogo inganno dell’immaginazione – mi pare di vedere un mondo più intimo, più socievole, più felice di quello in cui viviamo oggidì. Mi rin- cresce, per altro, di dover constatare che queste usanze si vanno gradatamente perdendo, un po’ perchè il tempo le sciupa, un po’ perchè le cancella lo spirito della nuova età. Esse mi fanno l’effetto di quei pittoreschi cimeli di architettura gotica che si possono ancora osservare qua e là nel paese, in parte sgretolati dai secoli, in parte perduti e sommersi in restauri e costruzioni posteriori. Ma la poesia non li lascia; anzi si abbarbica con amore a questi giuochi rustici e a queste costumanze festive, da cui ha derivato tanti motivi, così come l’edera ricinge col suo ricco fogliame l’arco gotico e la torre diroccata, ripagando, per gratitudine, il sostegno che le danno col tenere unite le loro membra cadenti e quasi imbalsamandole nel verde. Di tutte le feste, tuttavia, il Natale è quella che risveglia in noi le memorie più vive e più care. Un sentimento solenne e sacro si fonde coi nostri piaceri conviviali e solleva il nostro spirito fino a una gioia nobile e alta. I servizi religiosi nelle chiese, di questa stagione, hanno un non so che di tenero e di inspirato. Ci dicono la bella storia dell’origine della nostra fede e le scene pastorali che accompagnarono il suo annuncio. Essi si fanno gradualmente più fervidi e patetici durante il periodo dell’Avvento fino a che rompono in un’esplosione di gioia la mattina che portò la pace agli uomini di buona volontà. Io non credo che la musica abbia un effetto più grandioso sui nostri sentimenti morali di quando udiamo il coro al completo e l’organo che suona un inno di Na- tale in una cattedrale, di cui la trionfale armonia riempie ogni vano.
È bene ed è bello che questa festa di Natale, la quale commemora il giorno in cui fu annunciata al mondo la religione della pace e dell’amore, sia anche, per antico costume, la stagione delle riunioni famigliari. Coloro che le vicende della vita, e liete e dolorose, tendono a separare, ecco, che in quel giorno si ritrovano. I loro cuori battono all’unisono. I figli d’una stessa famiglia che erano andati pellegrinando qua e là, chi da una parte e chi dall’altra, ecco che sono ancora una volta riuniti intorno a quel focolare paterno che conserva tanti cari affetti e tante care memorie.
C’è qualche cosa nella stessa stagione dell’anno che dà un fascino particolare alla festività del Natale. In al- tre stagioni noi godiamo delle bellezze della natura. Noi viviamo fuori di noi nella dolce dissipazione di un paesaggio soleggiato e luminoso. Il canto degli uccelli, il mormorio del ruscello, la spirante fragranza della primavera, l’estate riposante e voluttuoso, la pompa dorata dell’autunno – la terra col suo manto di un verde fresco e il cielo col suo azzurro profondo e delizioso o con la magnificenza della sua nuvolaglia – tutto ci riempie di un piacere muto e squisito e noi ci sentiamo felici di una felicità squisitamente sensuale. Ma nel cuore dell’inverno, quando la natura è spoglia d’ogni fascino ed è avvolta nel suo sudario di neve, è alle sorgenti intime dell’anima che dobbiamo attingere le nostre gioie. Il paesaggio desolato, i giorni brevi e tristi, le notti buie non solo paralizzano i nostri movimenti, ma contengono anche i nostri sentimenti e ci dispongono favorevolmente ai piaceri del conversare nei circoli quieti e raccolti. I nostri pensieri sono più concentrati; si risvegliano le nostre simpatie sociali e le nostre amicizie. Siamo portati a cercare la compagnia, e il piacere della vita ci accomuna, ci avvicina maggiormente gli uni agli altri. C’è come un tacito invito di un cuore all’altro e noi cerchiamo dentro di noi, nel profondo del nostro spirito, quel senso di gentilezza umana da cui la pura felicità domestica sottilmente e dolcemente emana.
Ci si sente allargare il cuore quando verso sera dalla malinconica foschia della strada entriamo in una bella camera illuminata e riscaldata dal fuoco. Le fiamme vive e rosse mettono ovunque il tepore come d’un estate artificiale e il volto di coloro che ci accolgono si illumina di una dolce benevolenza. È lì, intorno al focolare che l’onesta faccia del vecchio ospite si apre a un sorriso spontaneo e cordiale; è lì che il timido sguardo della giovinetta innamorata si anima di una eloquente dolcezza. E poichè il vento freddo, invernale soffia nell’atrio, scuote le porte lontane e fischia per il camino, è lì che noi godiamo di sentirci riparati e sicuri e giriamo con gioia lo sguardo su tutto il comfort che ne circonda e su quella scena di domestica letizia.
Gli inglesi, a cagione del prevalere delle abitudini rurali in tutte le classi della loro società, sono sempre stati amantissimi di queste feste, che interrompono piacevolmente la monotonia della vita di campagna; e, un tempo, osservavano con particolare passione i riti religiosi e sociali del Natale. È interessantissimo leggere le descrizioni che si conservano di certe allegre riunioni e di certe processioni burlesche; del modo con cui si abbandonano, in buona compagnia, a ogni giocondità. Ogni porta si apriva e ogni cuore si schiudeva. Signori e contadi- ni si accostavano e le divisioni sociali scomparivano in un’atmosfera di gioia e d’intimità. I vecchi androni dei castelli e dei manieri echeggiavano del suono dell’arpa e delle note dell’inno di Natale: le porte massicce si aprivano ospitalmente. Perfino la più misera cottage celebrava la stagione festiva decorandosi con verdi rame di alloro. La luce del focolare traspariva dalle finestre invitando il passante a sollevare il saliscendi, ad entrare e ad unirsi al crocchio raccolto intorno al camino e intento a passare le lunghe serate raccontando di fole e di storie natalizie.
Una delle conseguenze meno simpatiche della moderna raffinatezza è la dispersione ch’essa ha fatto di queste vecchie e care costumanze. Ha smussato certi spigoli capricciosi e certe sagome bizzarre ch’erano un abbelli- mento della vita ed ha messo la società sopra una superficie più levigata e più liscia, ma certamente meno caratteristica. Molti de’ giuochi e delle cerimonie del Natale sono completamente scomparsi e, come lo sherry sack del vecchio Falstaff, sono diventati oggetto di discussioni ermeneutiche. Erano in fiore e in onore in tempi in cui gli uomini godevano la vita sensualmente e grossolanamente, ma con grande effusione e cordialità; tempi sfrenati e pittoreschi che hanno fornito un ricco materia- le alla poesia e al teatro una attraente varietà di tipi e di situazioni. Il mondo è diventato più mondano. C’è più dissipazione e c’è meno gioia. Il piacere scende su una corrente più larga ma anche più bassa e non unisce più quei canaletti quieti e profondi nei quali penetrava attraverso la calma vita domestica. La società signorile ha preso un tono più elegante ed elevato; ma ha perduto molto de’ suoi colori locali, delle sue affettività famigliari, di quelle oneste giocondità che le dava il focolare di casa. I costumi tradizionali dei tempi antichi, le feudali ospitalità, le generose elargizioni sono tutte cose del passato, cadute col cadere de’ castelli e dei manieri in cui si celebravano. Esse erano bene in carattere con le enormi sale, le tribune di legno che vi erano erette, i preziosi arazzi che pendevano dalle pareti, ma sarebbero fuor di posto nelle sale e salotti della villa moderna.
Per quanto spogliato de’ suoi onori di una volta il Na- tale è però sempre in Inghilterra un periodo di piacevole eccitamento. Il sentimento della home, radicato così for- temente nel cuore di ogni inglese, vibra in quei giorni in modo particolare. I preparativi per la tavola natalizia che deve unire intorno a sè parenti ed amici; i doni e gli auguri; i sempreverdi – emblemi di pace e di gioia – distribuiti nelle case e nelle chiese; tutto contribuisce a ravvivare affetti e ad accendere simpatiche benevolenze.
Perfino il suono di quei poveri musicanti e cantori che si arrestano davanti alla nostra porta di casa, ci giunge, nel cuore della notte invernale, come una perfetta armonia; ed io mi ricordo che avendomi quel suono una volta svegliato, sono rimasto lì ad udirlo con un vago senso mistico, parendomi quasi d’udire un coro celeste che an- nunciasse la pace agli uomini di buona volontà.
Perchè l’immaginazione, quando il nostro animo è commosso per questi alti sentimenti morali, si compiace di vestire, per noi, ogni cosa di bellezza e di melodia. Perfino il canto del gallo, quando rompe la solitudine e il silenzio della campagna, è interpretato, in una credenza popolare, come l’annuncio che la sacra ricorrenza sta per avvicinarsi.
È la stagione in cui tanti affetti rinascono e si riaccendono d’una fiamma che brilla e crepita come quella che sale su dal ceppo tradizionale. Chi può rimanere ad essa insensibile? chi può resistere a questo invito alla felicità, a questa lieta effusione degli animi?
La scena dei nostri amori giovanili ritorna alla nostra memoria, di là dalla sterile sodaglia degli anni e l’idea della casa, abbellita dal ricordo di tutte le gioie che ci si annidano, ci rianima come talvolta in Arabia la brezza che reca il profumo de’ campi lontani, rianima il pellegrino stanco ed affranto in mezzo alle sabbie del deserto.
Io sono qui in Inghilterra come uno straniero di passaggio e sebbene per me non si accenderà alcun focolare, sebbene nessuna porta mi si aprirà ospitalmente e nessuna mano amica mi si stenderà dalla sua soglia, sento tuttavia l’influenza della stagione natalizia attraverso la felicità che traspare dagli sguardi di quanti mi circondano. Non v’è dubbio che la felicità si riflette come la luce del cielo e ogni volto sorridente e lieto è quasi uno specchio che trasmette agli altri i raggi di una suprema e luminosa benevolenza. Chi è insensibile alla felicità dei suoi simili e si chiude nella sua solitudine quando tutto ride intorno a lui, potrà avere momenti di egoistico godimento ma non potrà mai apprezzare le buone gioie di un buon Natale.